La tavola che cambia: dalla Penisola Sorrentina al futuro dell’alimentazione
Dicembre, in Penisola Sorrentina, è il mese in cui il cibo diventa racconto. Le cucine si riempiono di gesti ereditati, i profumi sembrano risvegliare storie addormentate, e ogni tavola è un piccolo teatro di memorie. Le tavole che si preparano per le feste non sono soltanto un rituale gastronomico, ma un archivio vivente di ricordi, paesaggi e racconti familiari. Le ricette si tramandano come si tramandano le storie, cioè con un gesto della mano, un profumo, una frase detta mentre si affetta un finocchio o si mette a cuocere il pesce per il cenone.
Eppure, proprio mentre ci prepariamo ai riti più antichi dell’anno e celebriamo i sapori che riconosciamo come “nostri”, vale la pena volgere lo sguardo altrove, lontano nel tempo e nello spazio, per ricordarci che ciò che mettiamo nel piatto parla sempre di molto più che di nutrimento. La questione è molto concreta e necessaria: nel 2050 sul pianeta Terra saremo nove miliardi, e la domanda di proteine ci obbligherà a ripensare abitudini che consideravamo intoccabili.
Da sempre, mangiare è un atto sociale e simbolico prima che biologico. Molto prima che esistessero le feste, le ricette e perfino le parole, il cibo ha modellato ciò che siamo diventati. Quando i primi esseri umani hanno addomesticato il fuoco, non hanno solo imparato a cuocere gli alimenti, ma hanno inaugurato la possibilità di sedersi insieme, di condividere, di parlare. Una mascella che mastica meno, grazie ai cibi cotti, lascia spazio a un cranio che evolve, a una bocca che impara a articolare la voce, per cui mangiare trasformò l’uomo in un essere capace di linguaggio. Evidentemente, il fuoco non ci ha solo scaldati, ma ci ha resi umani.
Da allora, la nostra storia può essere letta come una lunga trattativa con il mondo commestibile. Diecimila anni fa abbiamo inventato l’agricoltura: nelle valli del Tigri e dell’Eufrate si addomesticavano il frumento e l’orzo; sulle rive del Nilo si imparava a far crescere il grano sulle terre lasciate libere dalle piene; in Mesoamerica si selezionava il mais, mentre in Cina il riso diventava il fondamento di una civiltà. Da queste prime semine sono nati i villaggi, poi le città, poi le prime burocrazie che registravano raccolti e carestie su tavolette d’argilla.
Più tardi abbiamo costruito regni attorno al pane: l’Egitto dei faraoni era definito “il granaio del Mediterraneo”, e la potenza di Atene dipendeva dalla sicurezza delle sue rotte cerealicole verso il Mar Nero. La Roma repubblicana capì che il consenso politico si garantiva con l’“annona”, il grano distribuito ai cittadini. Il pane, in molte epoche, è stato più determinante di un esercito.
Abbiamo eretto imperi attorno al sale: dalla Via del Sale che collegava le Alpi al mare, alle saline di Trapani e di Margherita di Savoia; dagli immensi bacini salini del Sahara, scambiati nei commerci transahariani come oro bianco, fino ai privilegi fiscali che in Cina e in Europa finanziarono dinastie e guerre. Perfino la parola “salario” ricorda che il sale, per secoli, è stato una moneta.
E abbiamo costruito religioni attorno ai divieti alimentari: l’antico Israele articolava identità e separazione attraverso norme dietetiche; l’Islam trasformava il lecito (halal) e l’illecito (haram) in categorie morali e comunitarie; il cristianesimo medievale distingueva giorni “di grasso” e giorni “di magro”, regolando l’anno liturgico prima ancora di regolare la tavola. In India, la vacca sacra ancora oggi non è solo un simbolo religioso, ma una geografia morale del cibo. Insomma, interi popoli si sono identificati attraverso ciò che mangiavano o rifiutavano di mangiare. In altri termini, ogni cultura è anche una dieta mentale, un modo di ordinare il mondo distinguendo il puro dall’impuro, il domestico dal selvatico, il quotidiano dal festivo.
Oggi, però, quella lunga storia si trova davanti a una nuova frontiera. La domanda globale di cibo cresce, mentre il pianeta, semplicemente, non cresce con noi. E così siamo costretti a riaprire interrogativi antichi: che cosa è “accettabile” da mettere nel piatto? Che cosa può diventare parte della nostra identità alimentare? Che cosa ci fa ribrezzo, e perché?
Le nostre risposte sono sempre culturali, anche quando crediamo siano biologiche. Le patate furono rifiutate, il pomodoro accusato di essere velenoso, il cacao sospettato di avere poteri demoniaci; eppure oggi non potremmo immaginare la cucina mediterranea senza questi ingredienti “stranieri”. Il disgusto, che ci appare naturale, è in realtà un archivio di abitudini storiche, dunque cambia, si evolve e, chiaramente, si addomestica.
E allora non stupisce che per molti popoli del mondo ciò che per noi è strano, come certe farine o certi animali minuscoli, sia invece parte ordinaria della dieta. Ciò che oggi ci fa storcere il naso potrebbe diventare, domani, una presenza familiare nelle nostre dispense. Il punto non è prevedere se mangeremo questo o quello, ma riconoscere che il gusto è una forma di adattamento culturale, un linguaggio che risponde ai tempi.
E in questo scenario globale, tra le molte possibilità discusse, torna con insistenza un’ipotesi che a molti sembra ancora fantascientifica, come quella delle proteine ricavate dagli insetti. Non si tratta di capricci gastronomici, ma di una delle soluzioni più studiate per mantenere sostenibile l’approvvigionamento alimentare: richiedono poca acqua, occupano poco spazio, emettono pochissimi gas serra e, dal punto di vista nutritivo, offrono un profilo ricco di proteine, aminoacidi essenziali e minerali. Allo stesso tempo, portano con sé domande che non sono solo tecniche ma culturali: come vengono allevati? Quali specie sono commestibili? Come si trasformano in farine, snack, piatti elaborati? E soprattutto: quali accortezze sanitarie servono per evitare contaminazioni, allergie, accumuli di metalli pesanti o micotossine?
Anche in questo caso, la questione principale non è la novità del cibo, ma la nostra capacità di riconoscere che ogni dieta, anche la più tradizionale, è stata a suo tempo un’invenzione. Ciò che oggi ci appare estraneo potrebbe diventare, domani, una pratica ordinaria – o forse no. Dipenderà da come sapremo negoziare, come sempre nella nostra storia, tra necessità, immaginario e identità.
A dicembre, quando la Penisola Sorrentina si ritrae nelle sue tradizioni più affettuose, dall’odore degli agrumi nelle case al rumore del mare che accompagna i preparativi dei piatti rituali, può sembrare fuori luogo parlare di futuri alimentari. Ma forse è proprio questo il momento giusto per farlo. Perché le ricette che custodiamo gelosamente oggi sono il risultato di secoli di cambiamenti, di contaminazioni, di migrazioni, di povertà e di abbondanza. I nostri antenati, se potessero osservare la tavola di Natale, troverebbero in essa ingredienti impensabili ai loro tempi.
Il cibo è una storia di trasformazioni lente, non di rivoluzioni improvvise, per cui la domanda che ci attende nei prossimi decenni non riguarda solo ciò che mangeremo, ma ciò che saremo attraverso ciò che sceglieremo di mangiare. Forse il vero compito del futuro non è accettare o rifiutare nuovi alimenti, ma imparare a riconoscere la continuità dentro il cambiamento, ossia capire che ogni innovazione alimentare, per quanto radicale sembri, è solo l’ultimo capitolo di una vicenda millenaria in cui l’umanità, attorno a un fuoco sempre diverso, continua a raccontarsi.
Immagine di copertina: “Il Banchetto nuziale”, di Pieter Bruegel il Vecchio, 1568, Kunsthistorisches Museum, Vienna





